«Finalmente accadde ciò che dovea: Jarba irritato strugge Cartagine, e quella coraggiosa e savia Regina, senza un pensiero de’ cari suoi Tirj, senza provvedere in nulla al suo nuovo reame gittasi a disperazione in quelle fiamme stesse, ond’arde la Reggia».
Ippolito Pindemonte, Osservazioni sulla Didone
Introduzione
Composto nel 1723 e stampato nel 1724, questo melodramma di Metastasio è un adattamento operistico del mito di Didone e Enea così come ci viene narrato da Virgilio nell’Eneide. La storia dello sfortunato amore tra la regina di Cartagine e il semidio Enea inoltre è arricchita, sul piano drammatico, dall’innamoramento del confidente Araspe per Selene (sorella di Didone) e dalle vicende di Iarba e di Osmida, rispettivamente il personaggio secondario negativo e quello secondario positivo del melodramma. Ecco lo schema dei personaggi:
- Didone, regina di Cartagine, amante di
- Enea
- Iarba, re dei Mauritani, sotto il nome di Arbace
- Selene, sorella di Didone ed amante occulta di Enea
- Araspe, confidente di Iarba ed amante di Selene
- Osmida, confidente di Didone
Il finale della Didone Abbandonata
Leggiamo per intero la scena XVII del terzo atto, l’ultimo dei tre atti in cui si divide il melodramma:
SCENA XVII
Iarba con Guardie e detti [Didone, Osmida, Selene].IARBA: Fermati.
DIDONE: Oh Dei!
IARBA: Dove così smarrita?
Forse al fedel troiano
corri a stringer la mano?
Va’ pure, affretta il piede,
ché al talamo reale ardon le tede.DIDONE: Lo so, questo è il momento
delle vendette tue. Sfoga il tuo sdegno,
or che ogni altro sostegno il ciel mi fura.IARBA: Già ti difende Enea, tu sei sicura.
DIDONE: Alfin sarai contento.
Mi volesti infelice, eccomi sola,
tradita, abbandonata,
senza Enea, senza amici e senza regno.
Timida mi volesti. Ecco Didone,
ridotta al fine a lagrimar. Non basta?
Mi vuoi supplice ancor? Sì, de’ miei mali
chiedo a Iarba ristoro:
da Iarba per pietà la morte imploro.IARBA: (Cedon gli sdegni miei.)
SELENE: (Giusti numi pietà!)
OSMIDA: (Soccorso o Dei!)
IARBA: E pur Didone, e pure
sì barbaro non son qual tu mi credi.
Del tuo pianto ho pietà; meco ne vieni.
L’offese io ti perdono,
e mia sposa ti guido al letto e al trono.DIDONE: Io sposa d’un tiranno,
d’un empio, d’un crudel, d’un traditore,
che non sa che sia fede,
non conosce dover, non cura onore!
S’io fossi così vile,
saria giusto il mio pianto;
no, la disgrazia mia non giunse a tanto.IARBA: In sì misero stato insulti ancora!
Olà, miei fidi andate:
s’accrescano le fiamme. In un momento
si distrugga Cartago; e non vi resti
orma d’abitator che la calpesti.(partono due guardie)
SELENE: Pietà del nostro affanno!
IARBA: Or potrai con ragion dirmi tiranno.
Cadrà fra poco in cenere
il tuo nascente impero
e ignota al passeggiero
Cartagine sarà.
Se a te del mio perdono
meno è la morte acerba,
non meriti, superba,
soccorso né pietà. (parte)
Le fonti
Osmida e Araspe sono personaggi di invenzione metastasiana, mentre la sorella di Didone, Selene, era già virgiliana (sebbene nell’Eneide prendesse il nome di Anna), e anche il pretendente di Didone, Iarba, era già presente in Virgilio. Una curiosità: Iarba è citato marginalmente anche in Ovidio[1]; ma è solo il libro quarto dell’Eneide che ne delinea i tratti psicologici e caratteriali – la gelosia e l’ira vendicativa -, come si vede bene dall’episodio della sua preghiera al dio Giove (Eneide IV, 203-208 e 211-214):
Quello, fuori di sé, acceso dall’amara notizia,
dicono che davanti agli altari, fra le immagini degli dèi,
arringasse a lungo Giove levando le supplici palme:
“Onnipotente Giove, cui mentre ti parlo la gente dei Mauri
gavazzante su divani istoriati offre libagioni lenèe,
ma lo vedi cosa succede? (…)
Una vagabonda ha impiantato nel nostro paese, pagando,
la sua cittaduzza, e noi le abbiamo fornito arativi
e leggi del posto: be’, quella ha respinto le nostre nozze,
e accolto un Enea come fosse lui il padrone del regno.
“Fuori di sé” traduce il latino «amens animi», letteralmente “pazzo circa il cuore”, e racchiude in una sola espressione il temperamento dispotico e furioso che caratterizza Iarba in Virgilio e anche in Metastasio, come si vedeva nella scena della Didone Abbandonata che abbiamo citato. Analizziamola:
Didone Abbandonata, scena XVII, atto III
Qui come nel resto dell’opera, il recitativo in endecasillabi e settenari è improntato a una forma neoclassica di medietas stilistica, cioè all’eleganza di una lingua semplice e al tempo stesso elevata. In questo dialogo, dunque, si ritrovano alcune figure retoriche proprie del genere del teatro in versi, come l’enumerazione («Eccomi sola, tradita, abbandonata»; «D’un empio, d’un crudel, d’un traditore,»), e la ripetizione/parallelismo («Che non sa che sia fede, / non conosce dover, non cura onore!»).
Infine, l’aria che conclude la scena, formata da due strofe di quattro settenari ciascuna, trae musicalità dalla rima interna alle due quartine e da quella tra i rispettivi versi finali (ABBC, DEEC), dove il verso tronco in chiusura, tipico delle arie d’opera, sembra sottolineare il tono perentorio e l’accento crudele delle ultime parole di Iarba.
Il Suicidio di Didone
Passiamo ad esaminare l’ultima scena del melodramma, quella del suicidio di Didone. Precisiamo che, a questa, Metastasio aveva voluto posporre una “Licenza“, una scena aggiuntiva, in occasione della rappresentazione madrilena del 1752. A Madrid, infatti, alla scena del suicidio seguiva l’intervento celeste del dio Nettuno. Ma esso non aveva una reale funzione di Deus ex machina, in quanto non metteva in salvo né Cartagine né Didone, e il tutto era per lo più un omaggio alla corte di Spagna. Ci limitiamo quindi ad analizzare la morte di Didone isolata dall’intervento del dio, come si presentava prima del ’52:
SCENA ULTIMA
Didone solaDIDONE: Ah che dissi, infelice! A qual eccesso
mi trasse il mio furore?
Oh Dio, cresce l’orrore! Ovunque io miro,
mi vien la morte e lo spavento in faccia:
trema la reggia e di cader minaccia.
Selene, Osmida! Ah, tutti,
tutti cedeste alla mia sorte infida:
non v’è chi mi soccorra, o chi m’uccida.
Vado… Ma dove?… Oh Dio!
Resto… Ma poi… che fo?
Dunque morir dovrò
senza trovar pietà?
E v’è tanta viltà nel petto mio?
No no, si mora; e l’infedele Enea
abbia nel mio destino
un augurio funesto al suo cammino.
Precipiti Cartago,
arda la reggia; e sia
il cenere di lei la tomba mia.Dicendo l’ultime parole corre Didone a precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della reggia: e si perde fra i globi di fiamme, di faville e di fumo, che si sollevano alla sua caduta (…)
“Ah che dissi, infelice!” fa riferimento ai versi subito precedenti, in cui Didone aveva bestemmiato gli dei e in cui Osmida, indignato dalle sue parole, aveva lasciato la scena. Ora Didone si pente della propria fragilità e, come ci si aspetta da un’eroina, si prepara ad affrontare con fermezza d’animo la morte che gli dei le hanno dato in sorte, anche se ingiustamente. Dopo il breve recitativo, dunque, c’è l’aria conclusiva, in cui si può vedere che l’estremo lamento della Didone metastasiana condivide con quello della Didone virgiliana alcuni elementi essenzialmente tragici:
- l’esortazione “si mora” rivolta a se stessa, invito ad affrontare coraggiosamente la morte (Virgilio usava il congiuntivo «moriamur» in Eneide IV, 660: «“sed moriamur” ait, “sic sic iuvat ire sub umbras”»).
- la maledizione finale scagliata contro Enea, considerato responsabile della propria rovina. Si noti che qui la strofa, unica, non è più isometrica e che, tranne la rima baciata in chiusura, le coppie di versi rimati si trovano in posizione arbitraria e irregolare, a raffigurare metricamente il respiro affannoso e l’afflizione della protagonista.
Il confronto con Purcell
Infine vorrei comparare quest’aria con un’altra probabilmente più famosa, la celebre “When I am laid in earth” (conosciuta anche come “Dido’s lament”) tratta dall’opera Dido and Eaneas di Henry Purcell, per vedere come due tradizioni drammatiche e operistiche distinte abbiano elaborato gli ultimi istanti della vita di Didone.
DIDONE: Thy hand, Belinda,
darkness shades me.
On thy bosom let me rest,
more I would,
but Death invades me;
Death is now a welcome guest.
When I am laid in earth,
May my wrongs create
no trouble in thy breast;
remember me, but
ah! forget my fate.[2]
L’accento è posto sul mondo delle ombre, da cui la regina si appresta ad essere accolta. Ma a parte il fatto che anche questa Didone chiama a sé la sorella (qui Belinda), non ci sono punti di contatto col monologo metastasiano, sebbene entrambe le arie siano ispirate al testo di Virgilio.
Bisogna anche precisare che l’opera di Purcell risente di una forte influenza elisabettiana e shakespeariana, come testimonia la presenza, in Dido and Eaneas, delle tre streghe che tramano contro Didone, e di molti altri elementi improntati più alla varietà che all’imitazione degli antichi.
Conclusioni
Se è vero che in Virgilio prevale l’impronta sublime della poesia epica e in Purcell il lirismo della parola, le due scene della Didone Abbandonata da me prese in esame danno ragione, per le loro caratteristiche, alla tesi della critica secondo cui quest’opera di Metastasio si possa definire “patetica” ancora prima che eroica e tragica[3].
Negli episodi della condanna di Iarba e del suicidio di Didone, l’azione e la poesia sembrano subordinate al pathos, paiono cioè tutte volte ad emozionare il pubblico. Ma questo è fatto rigorosamente secondo il canone neoclassico, che non prevede che nel dramma si sopprimano genericamente le passioni. Anzi, dice George Steiner, esso prescrive «di articolare un emozione, per quanto violenta, in contenute forme retoriche». Ed è esattamente quello che fa Metastasio, con grande equilibrio e sapienza poetica.
NOTE
- Iarba in Ovidio si trova in Heroides VII, 125 e in Fasti III, 551-4
- DIDONE: La tua mano, Belinda;
le tenebre mi fan velo,
Lascia ch’io riposi sul tuo seno;
Di più vorrei,
ma la morte mi assale;
Ora la Morte è un’ospite gradita.
Quando distesa sarò nella terra,
i miei mali non suscitino
Alcun tormento nel tuo petto.
Ricòrdati di me! ma,
ah! dimentica la mia sorte! - Cfr. Riccardo Bacchelli (a cura di) Teatro di Pietro Metastasio (Eri, 1962), p. 67